Facebook condannata per un post diffamatorio: se non li rimuove subito deve pagare

Condannato il provider che, nonostante due diffide della parte lesa, lo aveva cancellato in ritardo

Mark Elliot Zuckerberg, 38 anni, al timone del colosso Meta

Mark Elliot Zuckerberg, 38 anni, al timone del colosso Meta

Non può far finta di niente. Se è consapevole che nelle sue pagine ci sono “post” diffamatori, Facebook deve rimuoverli. Se si gira dall’altra parte fischiettando, la società di Mark Zuckerberg potrà essere costretta a metter mano al portafogli. Ferme restando, naturalmente, le conseguenze dirette a carico dell’autore del “post” diffamatorio. È stata la prima sezione civile del Tribunale, nei giorni scorsi, a condannare Facebook a risarcire 5 mila euro per aver rimosso ma solo in ritardo una pagina piena di accuse ritenute manifestamente infamanti.

Naturalmente il social ha provato a difendersi sostenendo che in ballo c’era un legittimo diritto di critica esercitato dall’autore del “post”. Non così il tribunale: "Si attribuirebbe a ciascuno il diritto di attribuire prima, e diffondere poi, anche tramite social network, notizie in merito alla perpetrazione di reati sulla base di mere intime convinzioni" . In ogni caso, per ritenere diffamatorie quelle frasi ci sarebbe voluta la pronuncia di un giudice ha provato anche a sostenere il provider. Ma per il tribunale la motivata diffida a rimuovere il “messaggio“ – spedita due volte a Facebook dalla parte lesa – era più che sufficiente a creare un dovere di cancellazione. Tanto più che (a riprova)la pagina alla fine venne in effetti rimossa, sia pure in ritardo ma senza ordini di giudici.

La vicenda in questione ruotava intorno a pesanti accuse ("truffa Snaitech") lanciate da un ex cliente nei confronti della società milanese di scommesse. Alla nota azienda venivano attribuiti vari reati (dalla truffa alla minaccia, dalla corruzione all’induzione a violare la legge) che a sentire l’autore del “post” avrebbero trovato conferma da una sentenza da lui citata, che in realtà si era espressa solo sul rapporto contrattuale tra le due parti. "infatti, dai documenti versati in atti emerge che le sentenze a cui l’autore dei contenuti ha fatto verosimilmente riferimento non hanno accertato la commissione di alcun delitto da parte degli attori", scrive il tribunale.

E dunque: Snai si era lamentata con Facebook per quel “messaggio“ insultante, ma il social aveva molto tardato prima di decidersi a rimuoverlo. Da lì la sentenza emessa la settimana scorsa dai giudici civili, una delle prime a riconoscere e sanzionare la condotta omissiva di un social in materia di diffamazione. Un comportamento illecito molto diverso da quello spesso contestato ai direttori responsabili di testate e siti: a loro viene rimproverato di non essersi accorti di articoli diffamatori dei loro giornalisti prima che vengano pubblicati.

Facebook invece non può rispondere della condotta dei milioni di suoi utenti, ma per i giudici milanesi ha il dovere di intervenire rimuovendo i testi quando sia stata messa sull’avviso dalla parte che lamenta la diffamazione subita. "In altre parole – osserva la sentenza – all’hosting provider si rimprovera una condotta commissiva mediante omissione e, quindi, di aver concorso nel comportamento lesivo altrui a consumazione permanente".

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