La pausa di 48 ore di chiusura dei mercati concede una tregua per fare un po’ di ordine su quanto accaduto alla californiana Silicon Valley bank, fallita nel giro di 72 ore generando un’ondata di paura sui mercati. I paragoni con Lehman Brothers non sono mancati ma sembrano piuttosto fuori luogo. Diversa la dimensione del crack, diversa la genesi, diverse le conseguenza. Si spera. La società non aveva investimenti particolarmente rischiosi come era stato invece nel caso delle banche coinvolte nella crisi dei mutui subprime deflagrata tra il 2007 e il 2008.

LA GENESI DEL DISASTRO – Partiamo dall’inizio. Svb è una banca californiana di medie dimensioni, specializzata nel settore tecnologico, con uno stretto legame con le imprese del territorio si potrebbe dire. Forse persino troppo. Nel 2021 scoppia la pandemia, le attività e gli investimenti si congelano. Le imprese della Silicon Valley hanno tanti soldi da mettere sul conto, in attesa che le cose si rimettano in moto. I depositi di Svb si gonfiano, in un anno aumentano di 130 miliardi di dollari. In quel momento i tassi statunitensi sono ancora a zero e quindi i depositi che per quanto un po’ controintuitivo per una banca sono passività, praticamente non hanno remunerazione. La banca non paga nessun interesse. Questi soldi possono però essere utilizzati per fare prestiti (che però in quella fase nessuno chiede) o possono essere investiti. Con un po’ di libertà in più rispetto alle grandi banche internazionali che sono sottoposte a regolamentazioni più stringenti. Svb comunque non fa scelte particolarmente azzardate. Anzi, investe in quelli che sono ritenuti tra i prodotti finanziari più sicuri al modo, i titoli di Stato statunitensi. Proprio perché così sicuri gli interessi che pagano sono bassi (in media l’1,79% per quanto riguarda il portafoglio di Svb). Tuttavia visto che la banca non paga interessi sui depositi, l’operazione è comunque profittevole. Tanto che Svb viene inserita tra le migliori banche d’America dalla rivista Forbes.

Nel marzo del 2022 le cose però iniziano a girare per il verso sbagliato. Nel tentativo di contrastare l’inflazione la Federal Reserve inizia ad alzare i tassi di interesse. Quelli manovrati dalla Fed sono gli interessi che le banche pagano per prestarsi tra loro a brevissimo termine i soldi che hanno in deposito preso la stessa Fed ma, a cascata, si ripercuotono in modo più o meno diretto su qualsiasi tipo di prestito. Anche sui depositi bancari che sono soldi che imprese e famiglie prestano alle banche, seppur con la condizione di poterli ritirare in qualunque momento e senza preavviso. Il costo dei depositi di Svb sale così da zero ad oltre il 2%. Questo accade anche perché i depositi presso la banca sono in media di ammontare piuttosto consistenti, somme importanti che danno ai clienti una maggiore leva negoziale sui tassi rispetto ai piccoli risparmiatori.

Il modello di business smette così di generare profitti poiché i titoli di Stato continuano a pagare gli stessi interessi in valore assoluto. La banca inizia a imbarcare perdite. Per ottenere più interessi bisogna investire in asset un po’ più rischiosi. Niente di strano ma se si disinveste si portano a casa le perdite e quindi, per gestire l’operazione, servono soldi. La banca vende titoli per 21 miliardi di dollari con una perdita di 1,8 miliardi. Tanto ma non tantissimo se rapportato alle dimensione dell’istituto. Svb decide quindi di rivolgersi al mercato per raccogliere nuovo capitale, emettendo azioni per poco più di due miliardi di dollari. La risposta però è glaciale. Anzi, la mossa solleva dubbi sulle condizioni della banca e inizia quello che è, da sempre, l’incubo di qualsiasi istituto di credito ossia la corsa agli sportelli. I clienti, sebbene si tratti in questo casi di investitori piuttosto sofisticati, si muovono con le logiche del gregge e iniziano tutti insieme a chiedere indietro i loro depositi.

In 24 ore le domande agli sportelli superano i 40 miliardi. Ma Svb, come qualsiasi altra banca del mondo, ha in cassa solo una minima parte del valore di tutti depositi (i soldi sono stati usati per comprare i titoli). È una somma che basta per gestire l’ordinaria amministrazione, quando i prelevamenti si compensano con nuovi depositi, ma che diventa velocemente insufficiente se tutti decidono di riprendersi i soldi allo stesso tempo. La banca a questo punto ha poche opzioni, o qualcuno le presta i soldi o deve disinvestire i suoi asset. Tuttavia questo richiede più tempo e comporta il rischio di svendere e dunque di incamerare perdite ancora più cospicue. E via da capo in quello che si avvita in un micidiale circolo vizioso.

A questo punto si muovono le autorità bancarie statunitensi. Entra in gioco la Federal Deposit Insurance Corp, l’agenzia federale di assicurazione sui depositi. Come in Italia (e in Europa) i depositi sono infatti assicurati fino ad una certa somma, nello specifico sino a 250mila dollari. Ma la gran parte dei conti di Svb eccedono questa somma, ben il 93% dei depositi sarebbe oltre la soglia di garanzia. Non significa che i soldi andranno persi ma per recuperarli, almeno in parte, bisognerà attendere gli esisti delle procedure di liquidazione.

LE RICADUTE – Il fallimento, anche a causa della sua velocità, ha diffuso paura sui mercati. Come va di moda dire in questi giorni “non lo hanno visto arrivare”, proprio perché frutto di dinamiche differenti dalle precedenti crisi. Le banche europee ieri hanno accusato cali consistenti come avevano fatto il giorno prima quelle americane. Sul mercato statunitense le vendite hanno poi colpito soprattutto gli istituti di minori dimensioni e con caratteristiche più simili a Svb come nel caso delle californiane Signature Bank e First Republic Bank, PacWest Bancorp. Il crack è senza dubbio emblematico delle tensioni sui bilanci bancari che possono derivare dal rialzo dei tassi, negli Usa come in Europa. Il timore dei mercati non riguarda tanto la ricaduta in sé del fallimento, le varie esposizioni e i collegamenti con altre banche, quanto piuttosto il segnale che ne è emerso. La stessa dinamica, in forma più o meno grave, potrebbe interessare altri istituti di credito. Sebbene in linea generale il rialzo dei tassi tenda a favorire la redditività delle banche, esistono situazioni in cui le ricadute sono di segno opposto, cosa che evidentemente non era stata sinora correttamente percepita.

Robert Amstrong del Financial Times ha però giustamente messo in luce le particolarità del caso Svb. Ossia una tipologia di clientela atipica, con valori medi dei depositi elevati, che si traducevano in interessi sui depositi molto sensibili alle variazioni dei tassi e, all’opposto, un portafoglio di investimenti molto poco reattivo a queste stesse variazioni. Per fare un esempio, nessun correntista italiano si è accorto del rialzo dei tassi dal suo conto corrente visto che gli interessi sono rimasti inchiodati a zero. Un altro aspetto da considerare sono le conseguenze che il fallimento avrà sul settore tecnologico californiano. Liquidare gli asset della banca consentirà di recuperare una quota più o meno consistente dei depositi ma nel frattempo quei soldi sono bloccati. I depositi appartenevano soprattutto a start up e fondi di venture capital specializzati nel settore dell’alta tecnologia, si potrebbe verificare quindi una temporanea penuria di fondi per il settore. Svb occupava un ruolo chiave nel supportare gli investimenti dell’area, è stata definita “un ventricolo” del sistema della Silicon Valley.

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